Le notizie che arrivano dal Brasile, relative alla foresta amazzonica, sono seguite con grande attenzione dall’opinione pubblica mondiale. Il motivo è da ricercare nel fatto che oltre ad essere la più vasta foresta pluviale esistente al mondo, al suo interno è racchiuso anche e il più ricco sistema fluviale, quello formato dal Rio delle Amazzoni. Lungo il suo percorso scorre quasi il 20% dell’acqua dolce presente sulla Terra. Non stupisce eccessivamente, alla luce di questi dati, che la foresta amazzonica vada a condizionare e regolare il clima dell’intero pianeta.
In un momento in cui milioni di persone si muovono all’unisono per cercare di portare all’attenzione della politica la questione del surriscaldamento globale, la tutela di un patrimonio ecologico di questa portata è quindi un tema centrale.
La foresta amazzonica, un gioiello di inestimabile valore
La foresta amazzonica si estende su una superficie pari a 6,7 milioni di km². Si dipana attraversando il territorio di ben nove Stati del Sud America e rappresenta la più grande foresta pluviale rimasta sul nostro pianeta.
Per capire meglio le sue dimensioni basterà ricordare che la sua porzione più vasta, posizionata all’interno del Brasile, vanta dimensioni tali da oltrepassare quelle dell’intera Europa occidentale. Dal suo stato di salute va quindi a dipendere in larga parte anche quello del clima globale. Immagazzinando da 90 a 140 miliardi di tonnellate di CO2, la sua distruzione, che procede nonostante gli allarmi, è destinata a provocare il rilascio nell’atmosfera di enormi quantità di tale sostanza. Il risultato che ne scaturirebbe può essere facilmente immaginato, tramutandosi in una vera e propria catastrofe a livello ambientale.
Anche se si prende come parametro di valutazione quello che concerne la biodiversità, il risultato non muta. Al suo interno, infatti, si annida una straordinaria varietà di specie animali, in pratica la decima parte di tutte quelle attualmente conosciute. Cui vanno ad aggiungersi circa 16mila specie di piante, 1300 di uccelli (un quinto di tutti quelli del mondo), non meno di 400 specie di mammiferi, altrettante per quanto riguarda i rettili e gli anfibi.

Ai dati ricordati occorre poi aggiungere le circa 350 popolazioni indigene che vivono all’interno della foresta amazzonica, le quali rappresentano una parte di storia del nostro pianeta, essendo legate a usi e tradizioni che con la loro scomparsa andrebbero ad estinguersi definitivamente.
In quale stato si trova la foresta amazzonica?
Di fronte a dati di questo genere non sorprende eccessivamente il fatto che in molti, in particolare tra gli ambientalisti, si preoccupino dello stato in cui questo autentico gioiello viene mantenuto. Se, infatti, circa l’80% della sua superficie originaria può essere considerato in buono stato di conservazione, il restante 20% è stato distrutto nel corso del tempo.
Proprio per evitare altre distruzioni e uno stato di stress avanzato della foresta restante, da più parti si reclama una immediata corsa ai ripari, tesa ad impedire ulteriori danni. Le pressioni internazionali, però, hanno trovato nel corso degli ultimi anni una notevole opposizione da parte del governo brasiliano, con logico corollario di polemiche.
In particolare, è l’attuale presidente brasiliano Jair Bolsonaro il destinatario delle critiche mosse dalle varie associazioni ambientaliste.

Secondo le informazioni pubblicate da Greenpeace, infatti, dal 2019, anno in cui è stato eletto, la deforestazione amazzonica è aumentata del 75,6%, mixandosi agli allarmi per gli incendi forestali, cresciuti del 24% e all’aumento delle emissioni di gas serra del Paese sudamericano, nell’ordine del 9,5%. I dati sono contenuti in un rapporto dal titolo molto esplicito “Dangerous man, dangerous deals”, in cui sono si denuncia non solo il sistematico smantellamento delle norme tese a proteggere l’ambiente, ma anche dei diritti umani di cui sono portatrici le popolazioni indigene.
Un giudizio duro, ma non certo campato per aria, alla luce della denuncia operata nei confronti di Bolsonaro da Allrise, un gruppo di attivisti austriaci per la giustizia ambientale, che ha deciso di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale (CPI). L’accusa nei confronti del presidente brasiliano è di aver dato vita ad “azioni direttamente collegate agli impatti negativi del cambiamento climatico in tutto il mondo”.
La denuncia di Allrise si è andata ad aggiungere a quella operata in precedenza da parte dell’Associazione dei popoli indigeni del Brasile. In base alle stime di un team di esperti, le emissioni attribuibili all’amministrazione Bolsonaro saranno la causa di ulteriori 180mila decessi che avverranno entro il 2100, su scala globale.
Occorre però anche ricordare come l’attuale presidente non sia il solo responsabile di quanto sta accadendo. Anzi, da più parti si indicano anche le colpe di colei che l’ha preceduto, ovvero Dilma Roussef, autrice dell’approvazione di una legge di riforma del codice forestale criticata con grande forza dalle associazioni ambientaliste. La nuova normativa, infatti, ha allentato i divieti esistenti sull’abbattimento degli alberi, tanto da rendere più semplice l’ottenimento dei permessi. Inoltre, sono state ridotte le sanzioni e le pene previste per le di violazioni ambientali. Anzi, secondo i detrattori, sarebbe stata varata anche una amnistia mascherata per coloro che erano stati condannati per questo genere di reati nel corso degli anni precedenti.
Un vero e proprio favore ai proprietari terrieri e alle multinazionali, le quali hanno immediatamente recepito il messaggio tornando a cancellare pezzi interi di foresta, con ritmi sempre più accelerati. Un modus operandi che è stato favorito dalla congiuntura internazionale, ovvero dalla crescita dei prezzi della soia, tale da costituire un vero e proprio incentivo al disboscamento.
Per quale motivo si continua a distruggere la foresta amazzonica?
Il motivo che spinge a distruggere una parte di questo bene dell’umanità è, come al solito, da ricondurre a motivi economici, ovvero alla necessità di procurare nutrimento per il bestiame. Per farlo, gli alberi vengono tagliati nel corso dei mesi di luglio e agosto, per poi essere lasciati sul terreno al fine di fargli perdere umidità. Quando questo processo è terminato si passa a bruciarli, in maniera tale che le ceneri prodotte dalla combustione siano in grado di fertilizzare il terreno. Al ritorno della stagione delle piogge, sarà proprio l’umidità del terreno denudato a favorire lo sviluppo di vegetazione bassa per il bestiame.
L’allevamento di bovini rappresenta la principale causa di deforestazione nell’Amazzonia brasiliana ormai dal 1970. Se i dati governativi dell’epoca attribuivano il 38% della deforestazione tra il 1966 e il 1975 ad esso, nei decenni successivi la situazione è addirittura mutata in peggio. Ad attestarlo sono i dati pubblicati dal CIFOR, il centro per la Ricerca Forestale Internazionale, secondo i quali tra il 1990 e il 2001 la percentuale delle importazioni di carne dal Brasile all’Europa è aumentata tra il 40 e il 74%. Inoltre, nel 2003 per la prima volta nella storia, l’aumento nella produzione della stessa all’interno del Paese (l’80% della quale è da attribuire proprio all’Amazzonia) è stata causata in particolare dalle necessità di esportazione.
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Altra causa importante che spinge allo sfruttamento della foresta amazzonica è poi da ricondurre alla coltivazione della soia. A spingere in tal senso è stato lo sviluppo da parte degli scienziati locali di una nuova varietà di questo vegetale, particolarmente adatta al clima della foresta pluviale. Per effetto di questa scoperta il Brasile è diventato uno dei maggiori esportatori globali di soia del mondo, in quanto quella coltivata nel Paese sudamericano viene utilizzata nei paesi importatori in qualità di mangime ad alto contenuto proteico per gli animali d’allevamento.
Sono proprio queste le motivazioni che hanno spinto alcuni settori presenti all’interno del Brasile a propugnare la deforestazione ad oltranza. Grazie ad essa, infatti, diventa possibile il cosiddetto “cambio di uso del suolo”, che comporta l’eliminazione della vegetazione autoctona al fine di lasciare spazio non solo a piantagioni e pascoli, ma anche a miniere e infrastrutture.
Quali sono le conseguenze?
Naturalmente, la distruzione di una risorsa così importante comporta una lunga serie di conseguenze, tali da indurre a preoccupazioni sempre più forti l’opinione pubblica mondiale.
Quando si parla di foresta amazzonica si fa infatti riferimento ad un vero e proprio polmone verde, capace di garantire equilibrio climatico e biodiversità. Rappresenta a tutti gli effetti un enorme deposito di carbonio capace di trattenere dagli 80 ai 120 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, trasformandosi in uno strumento fondamentale nel contrasto alle emissioni nocive dell’atmosfera, limitando l’evolversi dei cambiamenti climatici proprio per effetto della produzione di ossigeno.
Come abbiamo visto, uno dei principali metodi usati per sottrarre spazio alla foresta sono gli incendi. Le fiamme sviluppate comportano peraltro un impatto negativo sul clima in quanto vanno a causare il rilascio di grandi quantità di gas a effetto serra. I dati raccolti dal Greenhouse Gas Emissions and Removals Estimating System, progetto sviluppato dall’Osservatorio sul clima brasiliano, un ente formato da una rete cui aderiscono oltre 50 organizzazioni non governative, mostrano un dato inquietante: le emissioni di gas serra in Brasile nel 2020, ovvero nell’anno successivo all’insediamento di Bolsonaro, sono arrivate a 2,16 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, ovvero la quantità più elevata dal 2006.
La deforestazione in Amazzonia, quindi, comporta in particolare effetti estremamente negativi sul clima, in quanto si va ad innescare una reazione a catena che espone la foresta al rischio di un inaridimento tale da poterla trasformare, a gioco lungo, in una savana. Un risultato che un pianeta ormai sul filo della crisi ambientale non può assolutamente permettersi.
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