Maggio 10, 2022
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  • Crisi climatica, quali sono i punti di non ritorno

Si parla molto di crisi climatica, ormai evidente alla luce delle proteste del movimento Fridays for Future. Se in molti hanno capito di cosa si tratti, però, non sono invece ben chiari quelli che possono essere considerati i punti di non ritorno. Andiamo quindi a cercare di definirli, anche da un punto di vista temporale.

Cosa si intende per punti di non ritorno

Cosa sono i punti di non ritorno o tipping point? Per tali si intendono i passaggi irreversibili verso un mondo sempre più caldo, quindi estremamente diverso dal precedente, all’interno del quale gli equilibri preesistenti sono destinati a cedere il passo a situazioni del tutto nuove. A ciò si aggiunge il fatto che il punto di non ritorno va a creare un fenomeno a cascata, innescandone a sua volta altri. In pratica, proprio la pressione che viene mossa dal riscaldamento globale, potrebbe portare ad un improvviso collasso di parti del sistema climatico, rendendone impossibile il controllo.

A rendere popolare il concetto di tipping point è stato il giornalista Malcolm Gladwell nel suo libro omonimo, oggetto di pubblicazione nel 2000. Mentre a delineare i punti di non ritorno è stato l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), un forum intergovernativo sul cambiamento climatico varato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente con il preciso intento di studiare il fenomeno del riscaldamento globale.

È stato proprio l’IPCC ad introdurre una vera e propria analisi dei punti di non ritorno, subito dopo il suo esordio. All’epoca si parlava di “discontinuità su larga scala” ritenendole non solo ampiamente indipendenti l’una dall’altra, ma anche tali da potersi verificare esclusivamente nel caso in cui il riscaldamento globale avesse superato i 5 °C rispetto all’età preindustriale. Una analisi ampiamente rivista negli anni successivi, tanto che oggi si ritiene che i punti di non ritorno potrebbero essere superati anche in una forbice oscillante tra uno e due gradi di riscaldamento.

L’analisi di Yale Environmet 360

Il punto da cui possiamo partire è rappresentato dall’analisi condotta da Yale Environment 360, una rivista online americana che si occupa in particolare di giornalismo ambientale. Secondo i suoi redattori, le dinamiche climatiche che potrebbero attivare i punti di non ritorno sono riassumibili in tre categorie principali:

  1. La perdita incontrollata delle calotte di ghiaccio, la quale potrebbe accelerare l’innalzamento del livello del mare;
  2. La perdita di foreste e altri depositi naturali di carbonio come il permafrost, con il conseguente rilascio degli stessi nell’atmosfera sotto forma di anidride carbonica e metano;
  3. L’alterazione del sistema di circolazione all’interno degli oceani.

Proprio il terzo punto è quello che al momento sembra destare le maggiori preoccupazioni degli esperti.

Il sistema di circolazione degli oceani, infatti, ha il compito di trasportare il calore, andando di conseguenza ad influire in maniera rilevante sul clima globale. In particolare, l’Atlantic Meridional Overturning Circulation (AMOC) rappresenta il sistema cui spetta il compito di regolare il flusso delle correnti dell’Oceano Atlantico in modo da spostare l’acqua calda dai tropici verso l’Europa, all’interno di una più ampia rete di modelli di circolazione oceanica globale.

Su questo complesso va ad influire il mutamento del clima, con conseguente diluizione dell’acqua salata, quella degli oceani, nell’acqua dolce derivante a sua volta dall’aumento delle precipitazioni e dallo scioglimento dei ghiacci continentali. Per effetto di questo processo l’acqua oceanica si alleggerisce sino a non essere più in grado di affondare. Ne deriva una maggiore lentezza e si calcola che nel corso della seconda metà del passato secolo e nei primi due decenni dell’attuale l’AMOC si sia già indebolita nell’ordine del 15%.

Lo studio di Nature

All’analisi di Yale Environment 360 si va poi a sommare un recente studio pubblicato sulla rivista Nature, secondo il quale i rischi di una crisi irreparabile sarebbero non solo imminenti, ma anche molto più probabili. Alcuni punti di non ritorno, in effetti, potrebbero essere già stati varcati quando si è verificato l’aumento di un grado del riscaldamento terrestre. Tanto da spingere i critici ad accusare l’IPCC di aver finora minimizzato i rischi di superamento dei tipping points, anche perché in parte sarebbero abbastanza complicati da quantificare.

Secondo l’analisi di Tim Lenton, pubblicata da Nature, ben nove dei quindici potenziali punti non ritorno i quali erano stati individuati nel 2008, incluso l’AMOC, mostrano ora la loro attività, con conseguenze di vasta portata per i sistemi climatici terrestri. Secondo lo stesso autore dello studio, ciò non significa necessariamente che sia stato raggiunto un punto di svolta, ma occorre prendere atto che il sistema in questione mostra ormai segnali evidenti di cambiamento, i quali si avviano nella direzione errata.

Gli altri otto tipping point “attivi” vanno in particolare a riversare i loro effetti sui seguenti sistemi:

  1. la calotta di ghiaccio della Groenlandia;
  2. quella dell’Antartide occidentale;
  3. aree di quello orientale;
  4. il ghiaccio marino artico;
  5. il permafrost (suolo perennemente ghiacciato delle regioni fredde);
  6. le foreste boreali;
  7. la foresta pluviale amazzonica;
  8. i coralli.

Proprio la presa in esame dei punti di non ritorno avrebbe permesso agli esperti di capire che ci sono parti del sistema Terra dotate di un potenziale in grado di mutare in maniera repentina come risposta al riscaldamento globale, andando di conseguenza a provocare l’alterazione dell’intero sistema.

La calotta di ghiaccio dell’Antartide occidentale, una delle tre regioni che formano l’Antartide insieme a quello orientale e alla penisola antartica, con la catena montuosa trans-antartica che divide l’est dall’ovest, dispone ancora di ghiaccio sufficiente per riuscire a innalzare il livello globale del mare di circa 3,3 metri. Ne deriva che anche una perdita parziale dei suoi ghiacci potrebbe rivelarsi sufficiente al fine di incidere drasticamente sulle linee costiere di ogni parte del mondo.

Altro tipping point cruciale è poi quello rappresentato dalla foresta pluviale amazzonica, la più grande a livello globale, la cui estensione tocca ben nove Paesi dell’America latina. Nel suo caso il mix formato da un abbassamento delle piogge derivante da un clima più caldo, dalla ridotta traspirazione della vegetazione conseguente all’aumento di anidride carbonica e dall’impatto diretto della deforestazione, sarebbe in grado di dare vita ad alterazioni su larga scala del sistema su cui si basa.

Una foresta pluviale, in effetti, non è in grado di sostenere il ridotto volume delle precipitazioni, tale da causare una riduzione della vegetazione, in quanto ne deriverebbe lo spostamento del clima della regione verso uno stato più secco. In particolare, l’Amazzonia non è in grado di sopportare che un certo grado di secchezza e siccità, varcato il quale non sarebbe più in grado di sostenersi in maniera autonoma. In pratica verrebbe a verificarsi quello che gli esperti indicano con il termine di “dieback”, ovvero un ritorno allo stato precedente di savana.

dieback

I punti di non ritorno, però, stanno agendo con grande forza anche sulle grandi distese di acqua degli oceani. Nel corso degli ultimi anni, infatti, i coralli sono stati oggetto di una lunga serie di sbiancamenti che sono il risultato di una prolungata esposizione alle elevate temperature raggiunte dall’acqua. Il vero e proprio stress provocato dal calore ha spinto i coralli ad espellere le zooxantelle, ovvero le piccole alghe colorate presenti all’interno dei loro tessuti e delegate alla fornitura dell’energia mediante fotosintesi. Il prodotto di questa situazione si è rivelato sotto forma di uno scheletro bianco, segnale di una lenta morte per fame.

Nel corso degli ultimi quattro decenni, lo sbiancamento massivo della barriera corallina ha visto quintuplicare eventi analoghi, in ogni parte del globo. Secondo l’IPCC se anche il surriscaldamento si limitasse sotto i due gradi, il 99% delle barriere coralline sarebbe comunque destinato a estinguersi.

Come si può agevolmente dedurre da quanto ricordato sinora, i punti di non ritorno destano preoccupazione non solo presi singolarmente, ma anche per il fatto che la loro interconnessione è destinata a riflettersi in maniera pesante sulla salute del pianeta. Sino a creare una sensibilità climatica che è in effetti molto più elevata ove rapportata ai modelli su cui si fondavano le analisi in precedenza. Il risultato finale di questo pericolosissimo mix può essere equiparato al classico principio della goccia aggiunta al vaso già pieno, tale da farlo traboccare. Se non saranno approntate le contromisure più adeguate l’acqua potrebbe infine uscire dal vaso con esiti catastrofici.

La data del punto di non ritorno secondo l’ONU

Abbiamo quindi visto cosa si intende per punti di non ritorno e quali siano nel concreto quelli di cui l’opinione pubblica e le istituzioni dovrebbero preoccuparsi. Al proposito, occorre però sottolineare come gli esperti dell’Onu abbiano già provveduto a lanciare l’allarme sul clima, con grande forza.

Secondo loro, in mancanza di riduzioni immediate e su larga scala delle emissioni di gas serra, riuscire a limitare l’aumento del riscaldamento sotto i due gradi sarà un’impresa non ardua, ma addirittura impossibile per l’umanità. Il punto di non ritorno sarebbe infatti molto più prossimo di quanto si immaginasse sino a non molto tempo fa e sarà raggiunto nel corso dei prossimi 20 anni, senza che l’impegno di politica e semplici individui possa far nulla per invertire il trend ormai formato.

Il messaggio che arriva dall’IPCC è quindi estremamente chiaro: l’umanità si trova ormai sull’orlo della catastrofe per effetto di cambiamenti climatici i quali sono irreversibili.

Per capire meglio di cosa si stia parlando occorre a questo punto ricordare che mai, sino a questo momento, l’ente intergovernativo delle Nazioni Unite che studia lo stato di salute della Terra, si era spinto ad un allarme simile.

Un monito lanciato all’interno del sesto report da esso pubblicato, in cui si parla senza mezzi termini di vero e proprio “codice rosso per l’umanità”. La soglia cruciale rappresentata dall’innalzamento della temperatura media del Pianeta di un grado e mezzo verrà varcata nel 2030. L’unico modo per evitarne le conseguenze catastrofiche può essere individuato in una serie di riduzioni immediate, rapide e su larga scala, delle emissioni di gas serra. In loro assenza il surriscaldamento globale sarà un dato di fatto dal quale sarà impossibile tornare indietro.

Lo studio dell’Intergovernmental Panel on Climate Change mostra senza alcuna possibilità di fraintendimento come le emissioni di gas serra provocate dalle attività umane siano alla base di un aumento delle temperature globali tale da poter essere quantificato in circa 1,1 gradi nell’arco temporale che va dal 1850 e 1900. Inoltre, rileva che nel corso dei prossimi 20 anni la temperatura globale raggiungerà o supererà il limite che pure era stato fissato all’interno dell’Accordo di Parigi sul clima. E, ancora, ove si venisse a verificare il peggiore degli scenari possibili, nel 2050 la produzione di emissioni in termini di anidride carbonica andrà ad attestarsi al doppio rispetto alle attuali.

Occorre poi sottolineare come molti di questi cambiamenti climatici non abbiano praticamente precedenti in archi temporali di migliaia, se non centinaia di migliaia di anni. Inoltre, da alcuni tra quelli che sono dati per acquisiti, a partire dal continuo aumento del livello del mare, sarà praticamente impossibile tornare indietro in un periodo di centinaia o migliaia di anni.

Il documento in oggetto osserva poi che ogni area terrestre deve in pratica misurarsi con i mutamenti prodotti dalla crisi climatica. A sottolinearlo è stato Panmao Xhai, co-presidente del primo gruppo di lavoro dell’IPCC, ricordando che i cambiamenti produrranno ulteriori conseguenze con il progredire ulteriore del surriscaldamento. E tutte le regioni di ogni parte del globo, come emerge dal rapporto, saranno colpite nel corso dei prossimi decenni dagli effetti riverberati dal cambiamento del clima.

Con la crescita di un grado e mezzo in termini di riscaldamento globale, si potrebbero verificare non solo ondate di grande calore, ma anche un allungamento delle stagioni calde a discapito di quelle fredde. Mentre nel caso di aumento pari a due gradi i picchi di calore potrebbero diventare devastanti non solo per la salute umana, ma anche per la produzione agricola.

Un’altra parte del documento viene poi dedicata ai fenomeni sempre più frequenti collegati al surriscaldamento globale. I mutamenti prodotti si stanno riversando non solo sui valori dell’umidità, ma anche sui venti e sullo stato degli oceani, delle aree costiere e dei ghiacciai. Il rivoluzionamento del ciclo dell’acqua, ad esempio, si esplica sotto forma di piogge più intense e inondazioni in alcune parti del mondo, mentre in altre si verifica la temuta siccità.

Non vengono risparmiate dalla crisi climatica in atto neanche le precipitazioni, il cui andamento potrebbe aumentare alle alte latitudini, diminuendo di converso in gran parte delle regioni subtropicali. Mentre per le zone costiere è previsto un continuo aumento del livello del mare per tutto il 21° secolo, un trend destinato a intensificare la frequenza delle inondazioni con conseguenze drammatiche per la loro popolazione.

Le conseguenze della guerra tra Russia e Ucraina

In questa situazione sempre più delicata si è andato poi a inserire lo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina, destinato a influire proprio su quel settore dell’energia che rappresenta uno dei fronti più delicati della questione.

In particolare, le misure che sono state approntate a breve termine allo scopo di affrontare la crisi energetica derivante dalla guerra, rischiano di rendere ancora più forte la dipendenza a lungo termine dai combustibili fossili e chiudere in modo pressoché definitivo la finestra di un grado e mezzo, con una linea temporale per tagliare le emissioni del 45% ormai sempre più stretta.

L’allarme, l’ennesimo, è stato lanciato nel corso del vertice dedicato alla sostenibilità dall’Economist, dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres. Di fronte a quanto sta accadendo, diventa sempre più necessaria una stretta cooperazione tra le economie sviluppate e quelle emergenti, tesa in particolare a spingere tutti i Paesi del G20 a ridurre le loro emissioni. Il modo per riuscirci è rappresentato dal completo smantellamento delle centrali a carbone, cui dovrebbero aggiungersi massicci investimenti da parte di finanza pubblica e privata in modo da consentire il rispetto dell’impegno preso dai Paesi ricchi nei confronti di quelli in via di sviluppo. Nel quadro degli stessi già nel corso di quest’anno dovrebbero essere stanziati 100 miliardi di dollari per favorire la transizione verso forme energetiche più sostenibili.

Per ora siamo alle semplici enunciazioni

L’allarme di Guterres cade però in una situazione molto particolare. Nel corso del 2019, infatti, 11mila scienziati di 153 Paesi dislocati in ogni parte del globo avevano provveduto ad apporre la loro firma in calce ad un documento in cui, dati alla mano, si dichiaravano fortemente preoccupati per l’ormai disastroso trend assunto dall’emergenza climatica. Reso tale dal fatto che non esiste una reale volontà di contrasto da parte delle istituzioni. Proprio per questo si chiedevano ai Governi mondiali di battere un colpo in tal senso, mettendo in campo provvedimenti concreti, e non semplici parole.

Nei quasi tre anni che sono trascorsi, però, sembra che nulla sia cambiato in tal senso. Tanto che 2800 scienziati di tutto il mondo hanno firmato un nuovo appello alle istituzioni, mentre ben 14mila hanno a loro volta affermato senza mezzi termini come si sia ormai prossimi al “punto di non ritorno”. L’appello è stato lanciato su BioScienze.

Oltre agli appelli, però, gli stessi scienziati hanno individuato sei precise aree in cui l’intervento dovrebbe essere prioritario, ovvero:

  1. l’eliminazione dei combustibili fossili e il passaggio definitivo alle fonti rinnovabili;
  2. la riduzione delle sostanze inquinanti, con un occhio di riguardo a carbonio, metano e idrofluorocarburi;
  3. la protezione permanente nei confronti degli ecosistemi terrestri, al fine di immagazzinare e accumulare carbonio e ripristinare la biodiversità;
  4. una corsia preferenziale per favorire le diete a prevalente base vegetale, in modo da ridurre gli sprechi alimentari e migliorare le pratiche di coltivazione;
  5. la trasformazione dell’economia, favorendo il passaggio a un sistema ecologico e a un’economia circolare, in cui i prezzi vadano a riflettere i costi ambientali completi di beni e servizi;
  6. la riduzione graduale della popolazione, con accorte politiche di pianificazione e un sostegno a istruzione e diritti delle donne. 
La Redazione

Mi chiamo Giuseppe e sono il fondatore di GreenYourLife, un blog pensato per fornire informazioni e consigli utili per uno stile di vita più sostenibile. Sono nato e cresciuto in uno dei posti più belli del mondo, la Sardegna, e sono sempre stato attento alle tematiche ambientali.

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