Il tema delle emissioni di gas serra continua naturalmente ad agitare i sonni di cittadini e governanti di ogni parte del globo. Il loro livello troppo elevato, infatti, si sta riflettendo in maniera sempre più forte sul clima, in particolare provocando un riscaldamento foriero di conseguenze su larga scala.
Se sul tema è stato scritto molto, anche sull’onda delle proteste dei movimenti ambientalisti, non è però chiaro quale sia il limite oltre il quale esse potrebbero dare luogo a effetti praticamente incontrollabili. Per capirlo meglio, occorre cercare di fare luce su un concetto fondamentale, quello del carbon budget.
Cos’è il carbon budget?
Il carbon budget, traducibile in italiano come “bilancio di CO2”, è la quantità di anidride carbonica che l’umanità può ancora emettere senza andare ad incidere sui livelli del riscaldamento globale e permettere loro di restare entro il grado e mezzo rispetto ai livelli preindustriali, come auspicato dall’Accordo di Parigi sul clima.
La metafora più efficace in grado descrivere il concetto è quello proposto dal movimento Friday for Future, sorto in appoggio alla battaglia ambientale condotta dalla giovane ecologista svedese Greta Thunberg, in base alla quale la nostra atmosfera ricorda una vasca da bagno: ove si intenda evitare che trabocchi dopo essersi riempita, allagandoci la casa, è necessario chiudere il rubinetto. Resta però da capire l’effettiva volontà politica di provvedere in tal senso.
I serbatoi naturali stanno venendo meno
Va sottolineato che in caso di fuoriuscita dell’acqua dalla vasca, il nostro pianeta sarebbe fornito di alcuni serbatoi naturali, in grado di contenerne l’eccesso. Tali possono essere considerati ad esempio gli oceani e le foreste, in particolare la foresta amazzonica.
Anch’essi, però, si trovano in uno stato di stress avanzato, che impedisce loro di svolgere al meglio la propria fondamentale funzione. In pratica la quantità di CO2 che riversiamo nell’atmosfera è talmente elevata che rende difficile poter rimediare come un tempo.
Potrebbe interessarti: Cosa fare per ridurre le emissioni di anidride carbonica
Per capire meglio cosa stia accadendo, occorre sottolineare come nel corso del decennio che va dal 2010 al 2019 gli ecosistemi terrestri sono stati costretti a fronteggiare ben 12,5 gigatonnellate di CO2 all’anno, mentre gli oceani si sono “limitati” a 9,2 gigatonnellate. A riportare questi dati è stato il Global carbon project. Nel corso del 2020 i due serbatoi hanno poi compensato il 54 per cento della CO2 emessa, avvantaggiati in tal senso dalla particolare situazione indotta dalla diffusione del Covid a livello planetario, che ha costretto in pratica a dare vita ad una lunga serie di misure di contenimento per effetto delle quali la produzione è crollata, con una riduzione delle emissioni totali nell’ordine del 7%.
Quanta CO2 è ancora possibile emettere?
Naturalmente, alla luce di una situazione così deteriorata, è giocoforza per gli scienziati porsi alcune domande fondamentali. A partire da quella relativa alla quantità di CO2 che è ancora possibile emettere, senza andare incontro alla catastrofe annunciata.
Proprio loro hanno quindi iniziato a studiare modelli in grado di dare una risposta esauriente, stabilendo di conseguenza il carbon budget che l’umanità ha ancora a sua disposizione. In particolare, è stato il think tank Mcc, basandosi sui dati del Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc), ad affermare che a partire dalla fine del 2017 resterebbero non più di 420 gigatonnellate di CO2 per riuscire a restare in quel grado e mezzo di cui si parlava in precedenza. Ciò vuol dire 42 gigatonnellate all’anno (o 1.332 tonnellate al secondo).
Già a questo punto si presenta però un problema di non poco conto. Nel 2019, quando ancora non era arrivata l’ondata di coronavirus che ha bloccato l’economia mondiale, ne erano state emesse ben 52,4. Il dato proviene dall’Emissions gap report pubblicato a cura delle Nazioni Unite.
Potrebbe interessarti: Emission Trading europeo (ETS): che cos’è e come funzionano le aste
Dal calcolo, inoltre, erano state escluse le 6,7 provenienti dai cambiamenti nell’uso del suolo (a partire dalla deforestazione), per effetto delle quali si arriva a 59,1. Senza correttivi a questo andazzo, alla fine del 2027 l’umanità si sarà già giocata tutto il budget che avrebbe consentito di rimanere entro i fatidici 1,5 gradi, e nel 2045 tutto quello che permetterebbe di contenere il surriscaldamento sotto i due gradi centigradi. Sull’onda di questi dati proprio MCC ha reso pubblico un vero e proprio countdown, denominato come Carbon clock.
Sono invece leggermente meno pessimisti i dati contenuti all’interno del report Sr15 pubblicato dal Gruppo Intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici, secondo il quale dal 2020 in avanti abbiamo ancora la possibilità di emettere 495 gigatonnellate di CO2. Operando in tal modo, comunque, le probabilità di centrare l’obiettivo di un contenimento climatico nell’ordine del grado e mezzo si attesta intorno al 50%. Un livello che è stato aspramente contestato dalla stessa Greta Thunberg, secondo la quale un dato simile non tiene in conto fattori di primaria importanza come i punti critici, i cicli di retroazione, l’ulteriore riscaldamento nascosto dall’inquinamento tossico dell’aria o gli aspetti di giustizia ed equità. La sua dichiarazione è giunta nel corso del Climate action summit tenutosi a New York il 23 settembre 2019. Ricordando al contempo che i dati in questione saranno conseguiti soltanto grazie al fatto che la sua generazione e quella successiva toglieranno dall’aria centinaia di miliardi di tonnellate della CO2 prodotta in precedenza con tecnologie che a malapena esistono al momento.
I costi della rivoluzione low-carbon
Perché ci sono ancora tante resistenze da parte dei governi per la presa in carico di provvedimenti tesi a limitare le emissioni nocive? Si è sempre affermato che esse siano dovute a costi i quali sarebbero esorbitanti. Un recente rapporto di Climate Change Committee (CCC), un organismo statutario indipendente istituito dal Parlamento del Regno Unito ai sensi del Climate Change Act 2008, sembra però andare in tutt’altra direzione.
Il Sixth Carbon Budget, presentato come una vera e propria road map per la decarbonizzazione completa del Paese, afferma infatti che impiegando meno dell’1% della ricchezza nazionale, il Regno Unito è in grado di ridurre il 78% delle emissioni entro il 2035 rispetto ai livelli del 1990. In tal modo andrebbe ad anticipare di 15 anni il raggiungimento dell’obiettivo per l’energia pulita del Regno Unito, un balzo considerato prima inimmaginabile.
Occorre sottolineare come nel corso del 2019 l’economia del Regno Unito sia diventata la prima tra quelle più grandi a livello globale ad approvare una legge sulle emissioni zero. Il rapporto del CCC va in pratica a individuare i modi per conseguire il traguardo, oltre a comprendere anche la prima valutazione dettagliata dei cambiamenti che potranno derivarne e le tappe fondamentali da conseguire.
In particolare, per conseguire l’obiettivo “…deve essere realizzato un importante programma di investimenti in tutto il Paese, in larga misura da parte del settore privato. Quell’investimento sarà anche la chiave per la ripresa economica del Regno Unito nel prossimo decennio. In molte aree, questo fornisce alle persone un risparmio reale, poiché la nazione utilizza meno risorse e adotta tecnologie più pulite ed efficienti, come le auto elettriche, per sostituire i loro predecessori alimentati a combustibili fossili”.
Il dato più sorprendente del rapporto è proprio quello relativo ai costi, molto minori rispetto alle valutazioni precedenti: occorrerebbe infatti meno dell’1% del PIL nei prossimi 30 anni, grazie non solo al calo dei costi dell’eolico offshore, ma anche alle nuove soluzioni a basso costo e low-carbon in ogni settore.
Per capire meglio la portata del rapporto, basta in effetti osservare le dichiarazioni rese da Euan Nisbet, della Royal Holloway, University of London, il quale ha dichiarato a BBC News: «Questo è un rapporto di enorme importanza che traccia una nuova economia per la Gran Bretagna per creare un paese migliore. Questo dimostra che si può fare. Può essere concesso. Questo ci trasforma in un leader mondiale e convincerà anche altri Paesi a seguire la strada”.
Lo stesso CCC, comunque, non si nasconde una realtà abbastanza evidente: se i mutamenti sono fattibili e convenienti, possono essere portati a termine soltanto se guidati da un’azione decisiva del governo. Un giudizio che trae validità dagli obiettivi estremamente ambiziosi che si pone. Entro il 2030, infatti, ogni nuova auto e furgone e ogni caldaia sostituita devono essere a zero emissioni di carbonio, mentre entro il 2035 a essere tale dovrà essere tutta la produzione di elettricità nel Regno Unito. Sarà necessario produrre idrogeno, catturare il carbonio, dare vita a nuove distese boschive. Inoltre, si dovrà puntare su fabbriche low-carbon e provvedere alla decarbonizzazione dei 28 milioni di case posizionate all’interno del Regno Unito. Si tratterà comunque di un piano non solo ambizioso, ma anche in grado aiutare l’economia, poiché dovrebbe comportare la creazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro in tutto il Paese.
Il CCC, inoltre, stima che il 41% degli sforzi tesi al conseguimento degli obiettivi proverrà da miglioramenti praticamente indolori nella tecnologia low-carbon e il 43% da una combinazione di tecnologia e cambiamento di comportamenti. In particolare, il 16% deriverà da un mutamento dei comportamenti, ad esempio ad esempio sotto forma di cambiamenti nella dieta o dalla riduzione dei voli aerei, con l’adozione di mezzi di trasporto alternativi. Nel caso in cui le raccomandazioni del CCC fossero adottate dai vari ministri, il Sixth Carbon Budget andrà a posizionare il Regno Unito come un vero e proprio leader climatico globale.
Il rapporto include peraltro una misura raccolta attraverso una vera e propria consultazione pubblica, indicata come UK Climate Assembly, la quale ha proposto l’introduzione di una tassa sui voli aerei frequenti, il divieto di vendere SUV inquinanti e una riduzione del consumo di carne.
Sono state le stesse associazioni ambientaliste britanniche a ricordare che il rapporto conferma che i costi di una società low-carbon e pulita sono molto meno alti di quanto affermato dagli ecoscettici, dicendosi però dubbiose sul fatto che il governo conservatore intenda realmente accettare la sfida. Proprio Boris Johnson ha di recente impegnato un solo miliardo di sterline a favore dell’isolamento termico delle case, destinandone al contrario 127 miliardi per l’HS2 e nuove autostrade destinate ad aumentare le emissioni. Non sembra in effetti la strada giusta.
0 commenti