Aprile 13, 2022
L'articolo parla di: Ambiente
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  • Cosa si intende con greenwashing?

L’ambientalismo oltre ad essere un’esigenza avvertita da sempre più persone, è anche una moda. Molti, all’atto pratico, si proclamano tali senza però far seguire gli atti concreti alle enunciazioni.

Quando però a rivelare contraddizioni tali da poter essere catalogate alla stregua di doppiezza sono le aziende, si entra in una dimensione molto particolare, che è stata ribattezzata da un termine ben preciso: greenwashing.

Andiamo quindi a osservare il fenomeno più da vicino i motivi che stanno dietro a questa pratica e le implicazioni.

Qual è l’obiettivo del greenwashing?

Nel corso degli ultimi anni si è parlato molto di Greta Thunberg e del movimento giovanile ispirato alle sue idee, Fridays for Future. Milioni di ragazzi e adolescenti di ogni parte del globo si sono attivati in massa per chiedere a gran voce un cambio di passo per quanto riguarda le politiche energetiche. Un mutamento teso a sventare, sinché c’è tempo, il surriscaldamento ambientale e le modifiche climatiche ad esso connesse.

Il movimento ha avuto larga eco sui media e in molti ambienti politici. La popolarità di questa battaglia non dovrebbe stupire ed è talmente evidente da aver spinto alcuni soggetti imprenditoriali a sfruttarla per i propri fini.

Sinché queste aziende portano avanti modalità produttive conseguenti alle enunciazioni di Fridays for Future non si pone alcun tipo di problema. La situazione, però, si complica non poco quando queste modalità produttive non solo non rispecchiano i proclami, ma vanno in direzione esattamente contraria. Come accade troppo spesso, in quanto molte aziende lanciano sterili proclami ambientalisti, al fine di incrementare popolarità e fatturato, che però non hanno rispondenza nella realtà.

Quando è nato il greenwashing

Il greenwashing non è una creazione recentissima. L’ambientalismo è infatti diventato molto popolare a partire dagli anni ’70, quando è iniziata la discussione su un livello di inquinamento ambientale sempre più pericoloso per gli esseri umani. Basterebbe ricordare come proprio alla fine di quel decennio anche in Italia apparve sulla scena politica il movimento dei Verdi, come del resto in molti altri Paesi continentali, a partire dalla Germania.

La grande popolarità delle istanze ecologiste ha quindi spinto le imprese a studiare il modo per poterle sfruttare a proprio vantaggio. Se, però, alcune di esse hanno cercato di essere conseguenti anche in termini di scelte produttive, non sono mancate quelle che, al contrario, hanno semplicemente pensato di presentarsi con un volto amichevole verso l’ambiente, senza però fare nulla per preservarlo realmente dalle conseguenze dei propri cicli produttivi. Una pratica presto bollata con il termine greenwashing, risultante dall’unione tra green (verde, inteso come ecologico) e whitewash (insabbiare, nascondere pratiche discutibili).

Il primo a parlarne, nel preciso intento di stigmatizzarla, fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld il quale lo utilizzò nel 1986 al fine di stigmatizzare l’usanza delle catene alberghiere di fare leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria in modo da invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani. Nella realtà, a motivare la richiesta non era un nobile intento ecologista, ma una più prosaica esigenza finanziaria, quella di risparmiare per tale via in termini di costi di gestione, tagliando per l’appunto questo genere di spesa.

Il caso limite in tal senso è rappresentato da alcune grandi aziende americane chimiche petrolifere, a partire da Chevron e DuPont. Le stesse che, nel corso degli anni ’90, cercarono di contrabbandarsi come eco-friendly con il semplice intento di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da operazioni le quali, in realtà, andavano a causare danni significativi in termini di inquinamento, a scapito dell’ambiente. Da questo momento, il termine greenwashing iniziò ad uscire dalla cerchia degli specialisti diffondendosi presso l’opinione pubblica.

Come viene condotto il greenwashing?

Ci sono molti modi di fare greenwashing, ovvero cercare di presentare per ecofriendly cose che nella realtà non sono tali. Per riuscire a individuarli, TerraChoice ha stilato “The Sins of Greenwashing”, una vera e propria lista di sette peccati perpetrati dalle aziende che si dichiarano rispettose dell’ambiente, allo scopo di tutelare i consumatori, cercando invece di ingannarli. Ovvero i seguenti:

  1. Sin of the hidden trade-off (trade off nascosto), consistente nel dichiarare l’ecosostenibilità di un prodotto basandosi esclusivamente su alcuni attributi in modo tale da spostare l’attenzione dell’opinione pubblica da altri che hanno invece maggiore impatto ambientale;
  2. Sin of no proof (mancanza di prove), portato avanti per mezzo di un’affermazione ambientale non sostanziata da informazioni tali da risultare facilmente accessibili o da una certificazione in grado di risultare affidabile da parte di terze parti, indipendenti;
  3. Sin of vagueness (vaghezza), caratterizzata dalla assoluta genericità delle indicazioni sul prodotto, tali da poter spingere i consumatori ad un fraintendimento;
  4. Sin of worshiping false labels (falsa etichetta), ovvero l’inserimento di etichette false o la presentazione di un prodotto utilizzando parole o certificazioni non rispondenti a verità;
  5. Sin of irrelevance (irrilevanza), tramite l’inserimento di affermazioni ambientali in effetti veritiere, ma non tali da risultare effettivamente utili per i consumatori;
  6. Sin of lesser of two evils (minore dei mali), azione condotta rilasciando un’indicazione tale da poter risultare veritiera per una specifica categoria di prodotto, ma la quale rischia in definitiva di distrarre il consumatore dagli effetti ambientali maggiori di una categoria presa nella sua interezza;
  7. Sin of fibbing (falsità), le asserzioni ambientali tali da risultare semplicemente false.

Come si può facilmente capire, il modo più comune di fare greenwashing consiste nell’utilizzare artifici linguistici, ad esempio sotto forma di un linguaggio vago e approssimativo, oppure talmente tecnico da essere in pratica impossibile da essere compreso dai non esperti.

Anche le immagini possono servire all’intento. Se ne possono utilizzare di estremamente suggestive, facendo in modo da far prevalere le tonalità di verde oppure i soggetti naturali. In tal modo si stabilisce una sorta di equazione visiva tale da spingere il consumatore a pensare che il brand in questione sia effettivamente interessato alla salvaguardia dell’ambiente, quando però, all’atto pratico, non è assolutamente così.

Alcuni casi clamorosi di greenwashing

Sinora abbiamo affrontato il tema del greenwashing da un punto di vista esclusivamente teorico. Nel corso degli ultimi decenni, però, ci sono stati alcuni casi abbastanza clamorosi in tal senso.

Spot dell’acqua Ferrarelle in cui veniva pubblicizzata una bottiglia a impatto zero

Tra i casi più noti di greenwashing nel nostro Paese occorre sicuramente ricordare quello relativo allo spot dell’acqua Ferrarelle, in cui veniva pubblicizzata una bottiglia a impatto zero. A renderla tale era in pratica la promessa che la CO2 prodotta per la sua fabbricazione sarebbe stata compensata varando azioni di tutela a favore di nuove foreste. La compensazione in questione, però, non era interamente effettuata in maniera tale che il risultato finale equivalesse ad una somma zero. Tanto da spingere l’autorità di garanzia ad emettere una sanzione pecuniaria nei confronti dell’azienda.

Stessa sorte toccata in seguito a San Benedetto e Sant’Anna. La prima multata nel corso del 2010 a seguito della presentazione della sua bottiglia di plastica in qualità di “amica dell’ambiente” in una serie di spot pubblicitari. La seconda incappata nello stesso trattamento due anni più tardi, a causa di dati sui pregi ambientali della sua eco-bottiglia superiori a quelli effettivi.

Se si allarga lo sguardo a livello globale, un caso notissimo è poi quello che ha interessato la Coca Cola, arrivata a sostenere qualche anno fa che la bibita in questione aveva un basso contenuto in termini di calorie, giustificando l’affermazione con la sostituzione della stevia allo zucchero.

Non meno rilevante il caso relativo alla compagnia petrolifera Chevron, arrivata a sostenere come i dipendenti della compagnia fossero impegnati attivamente nella tutela di orsi, farfalle, tartarughe per cercare di dissolvere la pessima fama derivante dalla sua attività.

Di casi analoghi ne esistono però moltissimi, molti dei quali arrivati proprio nel corso degli ultimi anni, quando gli allarmi sul pessimo stato di salute del pianeta si sono andati moltiplicando.

L’antidoto al greenwashing: come è possibile difendersi?

Come si può fare per sventare il greenwashing? Secondo gli esperti, un ottimo accorgimento in tal senso è quello collegato alle certificazioni ambientali, considerate il miglior modo possibile per potersi accertare della veridicità della reale sostenibilità delle aziende in tema di ecosostenibilità. Ad esempio, ricorrendo agli standard EMAS e ISO 140001, oppure facendo riferimento al GRS, acronimo di Global Recycled Standard, nel caso relativo alle aziende che si occupano di materiali riciclati.

Occorre anche sottolineare come questa pratica non trovasse contrasto a livello legislativo in Italia sino al 2014, quando il controllo sul greenwashing era affidato all’Antitrust ricadendo sotto la disciplina nota come “pubblicità ingannevole”. Nel marzo del 2014, l’Istituto Autodisciplina Pubblicitaria ha finalmente provveduto alla pubblicazione della 58° edizione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, al cui interno è contenuto un primo chiaro riferimento all’abuso di diciture tali da richiamare la tutela ambientale.

Al momento, quindi, il greenwashing in Italia viene considerato alla stregua di una attività pubblicitaria tesa a ingannare i consumatori facendo loro credere in una tutela ambientale che è soltanto nella teoria. Come tale è controllato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ente che ha già provveduto ad emanare diverse sentenze di condanna a carico di alcune aziende le quali ne facevano largo e improprio utilizzo. Oltre a San Benedetto, Ferrarelle e Coca Cola, che abbiamo già ricordato, anche la Snam è stata sanzionata nel corso del 1996, anno in cui l’azienda varò il suo slogan “Il metano è natura”. Considerata la popolarità delle istanze ambientaliste, è comunque prevedibile che di casi analoghi se ne verificheranno anche nell’immediato futuro.

La Redazione

Mi chiamo Giuseppe e sono il fondatore di GreenYourLife, un blog pensato per fornire informazioni e consigli utili per uno stile di vita più sostenibile. Sono nato e cresciuto in uno dei posti più belli del mondo, la Sardegna, e sono sempre stato attento alle tematiche ambientali.

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